02/02/12

Mirador. Irene Nemirovsky, mia madre

Lo tengo stretto tra le mani.
Stretto, strettissimo, sempre più stretto.
Come un dono che arriva inaspettato e temi possa svanire appena volgi lo sguardo.
Ma lo sguardo è fisso lì, ipnotizzato. Non riesco proprio a distoglierlo.
Un sorriso felice e quattro occhi che emergono annebbiati dalla trama sfocata di una vecchia foto in bianco e nero. Che emergono a colpire quel punto del tuo cuore di mamma che già sà, o immagina, a chi appartengono.
E' un punto del cuore delicatissimo, il più delicato di tutti. Quello dove si nasconde la paura inconfessabile che possa succedere qualcosa capace di dividerci dai nostri figli.

Lascio la presa.
Temo quasi di stropicciare questa vecchia foto riprodotta in copertina. Di far svanire una storia privata che è rimasta troppo a lungo nascosta, celata tra i dolorosissimi ricordi rimossi di una bambina. Una bambina che qui ha poco più di un anno e che, di lì a poco, non potrà più sentire le carezze di quella mano che ora le sorregge il braccio cicciottello con tanto amore e spensieratezza.

Apro il libro.
Annuso il profumo delle pagine, le lascio scorrere tra le dita.
So già che a un certo punto questa madre se ne andrà dalla scena, ma non posso immaginare che se ne andrà proprio alla mia età. E non posso nemmeno immaginare che, delle due figlie, la più piccola la vedrà andarsene scortata da due gendarmi proprio all'età di cinque anni, la stessa di mio figlio.

Brividi. Freddi.
Lungo la schiena.

E poi ancora più giù. Ovunque.
Al pensiero di quel che è successo, di come è successo, del perchè è successo.

Al pensiero di questa bambina che crescerà credendo che la madre è in viaggio e presto tornerà.
Al pensiero di due sorelle, sole, sulla banchina della stazione ferroviaria, in attesa dei treni di ritorno da Auschwitz. Un'attesa tragica, angosciante, inutile. In mano un cartello bianco con su scritto i nomi dei genitori. Tutto intorno solo braccia a righe su mani ossute e teschi, teschi che hanno occhi, occhi grandi, senza sguardo.

La bambina ha occultato nella sua memoria persino il ricordo dei loro volti, ma li ha aspettati. Sono passati quattordici anni dal quel fatidico mese di luglio e ora lei sa.
E' sola, in un cinema.
Sullo schermo immagini terribili. Accecata dalle lacrime, in lei nasce la consapevolezza che i capelli della madre, ricci come i suoi, stanno forse lì, in quella grigia pianura. Le ossa del padre sono state spalate e gettate, con migliaia di altre, in quella fossa comune.

Dovranno passare cinquant'anni.
Cinquant'anni per poter elaborare il lutto e affrontare le pieghe amare della storia.
Ora la bambina non lo è più da molto tempo. Alla sua età potrebbe quasi essere la madre della propria madre, che ha trentanove anni per l'eternità. Ha compiuto il lungo viaggio e rievocato l'irrevocabile. Ora dice a se stessa:" A partire da questo limite, nessuno, nemmeno le sue figlie, può seguirla". E lascia parlare la Storia

Una Storia con la S maiuscola. Fatta dalla rivoluzione d'ottobre, dalla seconda guerra mondiale, dall'occupazione nazista in Francia e dalla persecuzione agli ebrei.
Una Storia con la s minuscola, molto più intima, privata. Ma non per questo meno dolente. Anzi ...

La bambina è Elisabeth Gille, la madre una delle più apprezzate scrittrici in lingua francese del periodo prebellico.
Il libro, meraviglioso, è edito da Fazi Editore.
Lo consiglio a tutti coloro che si sono lasciati incantare da Suite Francese, Jezabel e gli altri scritti della Nemirovsky: scopriranno quanto i suoi personaggi non siano frutto di pura fantasia, ma lo specchio di vicende personali e familiari spesso lancinanti. Ma non dirò nulla di più, per non togliervi il piacere della lettura ...

1 commento:

  1. Felicissima che ti sia piaciuto. Alla prossima visita so già cosa vorrei che tu mi prestassi!

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